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Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone vive o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Dello stesso Autore:

Süden. Il caso dell’oste scomparso

Süden e la vita segreta

M come Mia. Süden e le ombre del passato

Titolo originale: Der namenlose Tag. Ein Fall für Jakob Franck

© Suhrkamp Verlag Berlin 2015

© 2017 Emons Verlag GmbH

Tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana: novembre 2017

Le citazioni a pp. 125-126 e 197 sono tratte da Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Einaudi, Torino 1969, estratto da pagg. 199-205.

Traduzione dal tedesco: Emilia Benghi

Redazione: Federico Castelli Gattinara

Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia

Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-369-1

Distribuito da Emons Italia S.r.l.

Via Amedeo Avogadro 62

00146 Roma

www.emonsedizioni.it

Vicina alla fede
lontana
dal mondo vive
eterna, buia
una stella

I

Il saluto dietro il muro

1

Una donna continuava a gridare il mio nome, ma non chiamava me.

Cattiva.

Non l’ho neanche vista, troppa gente attorno; tutti a strillare. Mi girava la testa. Non potevo non guardare; ogni volta che mi voltavo mia madre era lì per terra; tutto taceva.

Persino Willy stava zitto e muto; appollaiato sopra la gabbia, le piume gonfie, immobile, come impagliato.

“Dove sei?” gridava la donna; io stringevo forte le labbra, terrorizzato. Una parola ed ero morto. Me ne restavo dietro al divano; la televisione accesa, tutti allegri e vivi sullo schermo; solo mia madre non lo era, e il mondo attorno a lei.

Sentivo una voce in testa, glielo giuro, diceva: la tua mamma non tornerà più.

Anche se era proprio là, seminuda; avrei potuto strisciare fino a lei, toccarla. La voce mi ammoniva: non devi! Io mi riacquattavo e ascoltavo di nuovo l’altra donna che gridava il mio nome. Poi, senza volerlo, ho alzato un pochino la mano e l’ho mossa.

Ho fatto ciao al divano. Buffo, no?

Che fossi un bambino non giustifica nulla, mi sarei dovuto alzare in piedi, mostrarmi, fare qualcosa.

Perché invece non ho fatto niente?

La voce in testa mi chiedeva di continuo: perché non hai fatto niente, stupido vigliacco, perché? Volevo rispondere che non era mica vero; ma tenevo la bocca chiusa; dentro di me lo sapevo, la voce aveva ragione.

Da piccolo, me lo ricordo ancora, parlavo più con me stesso che con chiunque altro. Probabilmente parlavo addirittura più con Willy che con mio padre. E mio padre di certo parlava più con i suoi clienti che con me e mia madre. A casa, da noi, era così.

A parte quel giorno, che mi sono accoccolato dietro il divano e lui non la smetteva più di parlare.

Anzi, mica parlava; urlava; e mia madre urlava anche lei. Mai sentita urlare così. Fino a quella sera non sapevo nemmeno che avesse una voce tanto forte, la Mutina. Tutti la chiamavano così, i vicini, i commessi dei negozi; mio padre la chiamava col suo nome, Liese, e anche suo fratello e tutti quelli che ci conoscevano. Quando nessuno ascoltava però la mamma era per tutti la Liese la Mutina. Perché sussurrava appena e, se poteva, non parlava proprio. A quanto ricordo mi era sempre piaciuta così.

Quel giorno ho smesso di ricordare; avrei tanto voluto che avesse detto qualcosa, urlato come prima, a gola spiegata, inviperita, mulinando le braccia come se salutasse il buon Dio.

Ma era ferma a terra, e io rannicchiato dietro il divano; era tutto sbagliato; la donna in televisione gridava il mio nome, la odiavo. Non era lei quella giusta e non chiamava nemmeno me, ma qualcun altro che neppure riuscivo a vedere.

Era il giorno in cui a Berlino Est la gente attraversava il muro mentre io dietro un muro mi ci nascondevo, perché non avevo il coraggio di correre da lei che mi chiamava.

Ero lì a due metri, mi coprivo la testa con le braccia, tutto rannicchiato tra il divano e la parete, magro e piccolo com’ero. Volevo capire dov’era finita la mia Porsche Carrera 6, soltanto quello.

Soltanto quello.

Come facevo a sapere che rumore fa uno che muore?

II

I morti in visita

1

I morti non santificavano la loro festa; arrivavano quando volevano e restavano per la notte, a volte in due, a volte uno soltanto, come d’accordo a non sottrarsi l’un l’altro né tempo né spazio, o forse per rispetto reciproco.

Da anni Jakob Franck si interrogava su tutto ciò, senza pretendere una risposta. La presenza stessa dei morti era di per sé una spiegazione esauriente. Rifletteva all’unico scopo di distrarsi da se stesso; e di quando in quando ci riusciva pure. Seduto al tavolo apparecchiato del soggiorno conduceva, le mani vaganti, una muta conversazione sui motivi e le intenzioni dei suoi ospiti. Ogni tanto prendeva un biscotto al burro dal piatto al centro del tavolo, scuoteva il capo, inforcava gli occhiali da lettura, poi se li toglieva di nuovo; alla fine si appoggiava allo schienale della sedia e annuiva pensieroso come se, dopo un attento esame di tutte le ragioni addotte, concordasse con la sua stessa opinione.

Era consapevole dei suoi strani comportamenti, ma in tutti quegli anni non aveva ancora trovato un modo diverso di esorcizzare i fantasmi del suo passato, senza rendersi ridicolo ricorrendo ai trucchetti dei bambini per vincere la paura del buio.

Una volta in pensione qualche speranza di essere risparmiato dai suoi visitatori l’aveva nutrita.

Ormai, a distanza di due mesi, scuoteva la testa al pensiero di quella sua illusione, tanto vana col senno di poi.

I morti abitavano il suo presente, sia quando era a capo della squadra omicidi dell’undicesimo distretto sia, negli ultimi tempi, in veste di casalingo divorziato e single, a malapena in grado di gestire i propri soliloqui. Ai morti non importava della sua qualifica. All’epoca, con la promozione, aveva scelto il loro mondo, e da quel mondo nessuno torna indietro senza danni. Jakob Franck lo sapeva, o quantomeno l’aveva intuito già da prima, e non si era ancora pentito della sua decisione.

Solo, avrebbe fatto volentieri a meno di spaventarsi a morte ogni volta.

La trentaduenne si era buttata sotto il treno per Budapest; l’area di ritrovamento del cadavere misurava quaranta metri di lunghezza; la mano destra della donna giaceva sul lato opposto del binario; era stato un agente della scientifica a segnalarne la presenza al commissario.

Quel gesto, Jakob Franck, non riuscì a toglierselo dalla testa per settimane.

Ogni volta che rivedeva davanti a sé il collega in tuta protettiva col braccio alzato, lo torturava il desiderio di sapere se pure la giovane avesse alzato il braccio, pochi secondi prima che la locomotiva la centrasse in pieno trasformandole la mano in un grottesco saluto senza peso, distante dal resto del corpo. Il viso non esisteva più.

La donna restò senza nome per un giorno e una notte, poi la madre ne denunciò la scomparsa e fornì una sua foto alla polizia. Una persona distratta, aveva pensato Franck, vergognandosene subito dopo. Le informazioni a disposizione degli inquirenti non erano sufficienti a ricostruire la biografia della vittima. Il colloquio con la madre fu faticoso, di tanto in tanto Franck si trovò a dover alzare la voce per strappare la cinquantaduenne al suo letargo o quantomeno per richiamarla qualche minuto alla realtà. Il commissario aveva l’impressione che Lore Balan semplicemente non ne volesse sapere della disgrazia capitata alla figlia. Non sopportava che si fosse uccisa e si trincerava dietro la convinzione che, da quel momento, avrebbe portato un marchio per tutta la vita, sarebbe stata esposta al pubblico dileggio.

È proprio così, invece! Ribadiva il concetto ogni volta che Franck riapriva il discorso. Il poliziotto replicava con veemenza, lo fece anche quel giorno, l’ultimo di ottobre. Parole al vento, proprio come allora.

C’era anche Paulus Landwehr. Non sanguinava, non succedeva mai; arrivava con la solita salopette bianco sporco, disseminata di macchie di vernice, e la felpa verde, altrettanto sdrucita. Chiedeva acquavite, possibilmente di ciliegie. A casa Landwehr gli inquirenti avevano trovato undici bottiglie chiuse e diciannove vuote di kirsch; in corridoio e in cucina erano ammonticchiate casse di birra; nella camera da letto della coppia, sotto il letto impregnato di sangue e coperto di piume rosse, erano rotolate tre bottiglie mezze vuote di liquore all’uovo. Paulus Landwehr aveva spaccato il cranio alla moglie per poi uccidersi con nove coltellate. La traccia di sangue portava dalla cucina, attraverso il corridoio, fino in soggiorno, dove l’uomo era crollato a terra. Sentendo le urla, i vicini avevano chiamato la polizia. Quando Franck era arrivato sul luogo del delitto, l’imbianchino era ancora vivo e, come se avesse riconosciuto l’investigatore, gli aveva afferrato la mano sussurrando: “La donna ha perfettamente ragione”. Era morto durante il trasporto in ospedale.

La donna ha perfettamente ragione, ripeteva a Lore Balan; Franck aprì la portafinestra della sua stanza e respirò l’aria fredda e umida, nella speranza di purificarsi prima di voltarsi.

Le due presenze erano ancora sedute là, immerse in una conversazione che lui non riusciva a udire; solo l’eco delle frasi gli rimbombava in testa. Allora si chinò sul tavolo, prese un biscotto al burro e lo fece scrocchiare il più possibile tra i denti. Deglutì rumorosamente, ne afferrò un secondo. Ripeté per sei volte l’operazione.

Poi si lasciò cadere sulla seggiola, chiuse gli occhi e fece vagare i pensieri nel parco deserto; con la ghiaia che scricchiolava sotto le suole e il vento che provava una melodia assieme ai rami e alle foglie. L’ex detective capo si sentiva protetto e al sicuro e cercava di godersi quello stato; forse ci sarebbe anche riuscito se il telefono non avesse squillato e lui non fosse schizzato in piedi, per una sorta di deformazione professionale.

Mentre correva in corridoio non ebbe neppure bisogno di voltarsi per stabilire se i suoi due ospiti fossero ancora seduti al tavolo: Lore Balan, separata, addetta alla cucina all’Hotel Ibis, madre di una figlia affetta da depressione, che nella lettera d’addio aveva chiesto perdono per il suo gesto e per la sua vita intera; Paulus Landwehr, sposato da ventinove anni con Pia Landwehr, in passato muratore qualificato, alcolista come la moglie, alla quale, stando alle testimonianze di vicini di casa e parenti, chiedeva soldi in continuazione, finché lei non si era decisa a chiudere il rubinetto.

Dal corridoio Franck sentì l’uomo che diceva: lei ha perfettamente ragione, sua figlia non avrebbe proprio dovuto.

Con un rapido movimento afferrò la cornetta e la portò all’orecchio.

“Franck.”

“Winther.”

Poi il silenzio; la chiamata fu interrotta. Franck restò qualche minuto all’ingresso, col ricevitore in mano, a guardare la porta di casa come se stesse aspettando la scampanellata di un visitatore, e non l’irruzione di una meteora.

“Mi scusi per ieri,” disse l’uomo sulla porta, prima di ripetere per la terza volta il suo cognome.

“Fa nulla.” Franck gli tese la mano. I due si fissarono per un po’ negli occhi, con un certo imbarazzo.

Il giorno prima, dopo un’ora, il telefono aveva squillato una seconda volta. Franck aveva preso in considerazione l’ipotesi di lasciar partire la segreteria, ma non era sua abitudine. Se era a casa rispondeva sempre al telefono, diligente per deformazione professionale, così come nella grafia, leggibile fino all’ultima virgola: una calligrafia vera e propria, nel senso etimologico del termine.

All’altro capo del filo c’era di nuovo l’uomo di cui aveva riconosciuto subito la voce, anche se nella prima telefonata aveva detto un’unica parola e Franck non lo sentiva da circa vent’anni.

Dopo la prima telefonata aveva ricollegato il nome, era rimasto immobile con la cornetta nella mano destra e lo sguardo rivolto alla porta; alle sue spalle i fantasmi del passato; nell’aria il protrarsi del tono di fine conversazione, sfociato poi nel silenzio quando l’ex commissario, dietro quel nome, aveva riconosciuto la realtà e messo in conto, rientrando in soggiorno, di dover accogliere un terzo ospite.

Così aveva riagganciato, voltandosi poco dopo meravigliato che il telefono non suonasse ancora, cosa che fece solo un’ora dopo.

In quel momento era in cucina a bere una birra, sfogliava il giornale senza riuscire a concentrarsi e ripensava all’incontro con la donna quella sera di vent’anni prima, in una casa modesta della zona est della città, dove ardeva l’oscurità.

Winther, pensava, Winther.

Non riusciva a farsi venire in mente il nome di battesimo della donna e la cosa lo irritava al punto che fu tentato di andare a frugare negli scatoloni dove teneva i vecchi fascicoli. Sempre più innervosito, per sfuggire alla spirale di autocritica e futile rimuginare in cui si era infilato, si alzò di scatto precipitandosi in corridoio. Sarebbe piombato nella stanza accanto come in preda a un attacco di panico, se il telefono non avesse squillato, bloccandolo di colpo.

Ansimando sollevò la cornetta e l’uomo all’altro capo del filo per poco non riattaccò dallo spavento.

“Da questa parte,” disse Franck. Fece strada all’ospite, curvo su se stesso, fino in soggiorno e lo fece accomodare, spalle all’ingresso, sguardo alla finestra, sul lato corto del tavolo, dove gli spiriti, per un motivo noto solo a loro, non si sedevano mai; gli versò il caffè e gli tese il piatto con i biscotti. Ludwig Winther ne prese uno e lo poggiò con un impercettibile tremito della mano sul piattino accanto alla tazza. Non gradiva zucchero né latte, al contrario di Franck che, una volta seduto, non lesinò né l’uno né l’altro.

Franck era sul lato lungo del tavolo, di fronte al dipinto di un bosco che la moglie era stata “ben felice” di lasciargli; lo aveva sempre trovato “appena passabile”. Franck aveva acquistato la tela a un mercatino, gli era parso che aprisse “una porta su un mondo migliore”, spiegazione che Marion non capiva né voleva capire. Così, finché la moglie non se n’era andata di casa, il quadro era rimasto nel suo studio, accanto all’armadio che conteneva le copie dei dossier, per lei inquietanti quanto quel dipinto, che toni e ombreggiature rendevano cupo e deprimente. Come il guardarlo potesse trasportare in un mondo “migliore”, per Marion restava un mistero e il discorso si chiuse lì.

“Questo quadro mi colpisce molto,” attaccò Ludwig Winther dopo una pausa di silenzio trascorsa con gli occhi fissi quasi sempre sul suo caffè.

Pur avendo l’impressione che l’uomo avesse visto per la prima volta la tela, Franck lo ascoltò paziente.

“Appena entrato ho subito pensato che le si addice; che rispecchia la sua persona, se posso permettermi. La ringrazio per il tempo che mi dedica. Grazie davvero.”

Franck sedeva immobile, le mani in grembo, vigile come se conducesse controvoglia un interrogatorio al distretto; teneva addirittura pronto accanto al piatto il blocco di fogli bianchi e la biro. Strinse gli occhi, concentrandosi sulle mani dell’uomo in abito scuro. L’esperienza gli aveva insegnato a non fidarsi delle parole né dei gesti, nemmeno del silenzio, e a non dar credito a comportamenti ostentatamente amichevoli. Cinque su dieci, degli individui che si era trovato di fronte da commissario, cercavano di accattivarselo propinandogli bugie maldestre; due gli scodellavano menzogne come fossero la pura e semplice verità; uno farneticava per natura; un altro aveva commesso il fatto e quindi era l’unico temporaneamente autorizzato a mentire; e solo uno su dieci raccontava ciò che sapeva e che corrispondeva alla verità. Quella statistica personale non l’aveva mai ingannato, finora nessun caso l’aveva smentita.

Nel giro di pochi secondi, senza accorgersene, era rientrato nei panni dell’inquirente.

Anche nel corso dell’ora successiva, mantenne immutato il suo atteggiamento; non si accorse neppure di scarabocchiare di tanto in tanto una parola, una frase sul blocco, così, sovrappensiero, mentre annuiva senza distogliere lo sguardo, come a invitare il suo interlocutore a proseguire. E Winther si sentiva incoraggiato per davvero; non avrebbe mai immaginato di poter apprezzare a tal punto la vicinanza e la disponibilità del suo ospite. Davanti al portone, l’insicurezza e l’apprensione gli avevano bloccato il respiro. Gli era servito qualche minuto prima di trovare il coraggio e suonare il campanello; e quando poi aveva sentito gracchiare il citofono, non era riuscito a pronunciare il suo nome.

Ma ormai, come Franck, aveva l’impressione di essere un’altra persona, forse “migliore” rispetto alla mattina di quel giorno, il giorno dei Morti.

“Se fossi stato là, vicino come lo sono adesso a lei! Così da poter tendere la mano e afferrare qualcuno. Esther. Nessuno l’ha trattenuta, la piccola. Piccola poi mica tanto, aveva già diciassette anni; a volte giro per casa senza riuscire a togliermi dalla mente questo numero: diciassette, diciassette, allora mi affaccio alla finestra e spero che giù in giardino succeda qualcosa che mi distragga.

“Non succede mai niente; se fosse per la mia strada, Ellingerweg, la polizia starebbe tutto il giorno con le mani in mano. Diciassette, diciassette. Allora bevo birra, al massimo due bottiglie; in realtà non mi piace la birra; neanche mi ricordo l’ultima volta che mi sono ubriacato. All’epoca, nei tempi bui, ero sempre sbronzo, certo; ma è stato tanto tempo fa, mi sembra un’eternità. Allora era diverso, la mia vita era distrutta, e quando è così ti distruggi anche tu, è una legge di natura. Se sei fortunato e la vita riprende e ti rimetti in sesto, non hai più bisogno di nascondere la bottiglie a te stesso, non è vero? Lei che è poliziotto lo sa di sicuro, conosce le persone, a lei basta uno sguardo per averci in suo potere. Scappare di continuo ci fa male, ci incattivisce.

“È proprio bello il quadro che ha lì appeso, mi è familiare. Non che vada spesso nei boschi; a far che poi? A perdermi; mi perdo spessissimo.

“Corro sempre dove non vorrei andare. Qui da lei però faccio quello che voglio, e mi onora che mi abbia ricevuto, so che ha altro da fare che ascoltare vecchie storie.

“Sarei morto se mi avesse respinto. Mi dispiace per ieri, sento il dovere di scusarmi ancora, mi dispiace moltissimo. Di aver riattaccato così. Non si fa, e una cosa del genere proprio non l’ho mai fatta, glielo assicuro. Davvero.

“A sentirla rispondere: ‘Franck!’, mi sono spaventato e la cornetta mi è sfuggita di mano, la prego di credermi. Chi mai lo direbbe? Un uomo grande e grosso che non riesce neanche a tenere in mano una cornetta! Dopo mi sono così innervosito che ho preso a pugni il muro dalla rabbia, pensi un po’! A pugni. Vede le nocche spellate? Sono escoriazioni ancora fresche, fanno un male cane. Un tempo avrei bestemmiato il Signore, o Gesù.

“Grazie per avermi permesso di venire.

“Adesso la smetto anche di parlare. Non capita spesso di trovarsi di fronte a uno che ascolta come lei; in genere le persone fingono interesse, ma fondamentalmente non lo provano, vale anche per me. Dov’ero quando avrei dovuto esserci? A Salisburgo. E dov’è Salisburgo? In una terra di nessuno. Ricordo ancora quando sono sceso alla stazione, tirava un vento gelido e io pensavo: presto nevicherà, forse già stanotte. Lo sa che giorno era? Il quattordici febbraio.

“Il quattordici febbraio l’ho eliminato dal calendario; strappo il foglio all’inizio di ogni anno e non solo dal calendario a parete, ma anche dall’agendina che mi compro pur non avendo impegni da annotare. Già prima mi compravo delle piccole agende con in fondo la cartina dell’Europa e le tabelle delle distanze. Per sapere quanto ci vuole da un posto all’altro, per andare da una certa città ad Amsterdam o a Madrid oppure a Budapest. Sono belle anche da vedere, le mappe colorate con le scritte minuscole e il mare blu tutto attorno ai Paesi. Ho passato ore a guardarle, come un bambino; ma da bambino non si capisce l’importanza di un Paese, quanto dista dal proprio, e tutto il contesto; uno guarda e pensa: questo è il mondo. Invece è solo carta stampata. No, non sono più così infantile; strappo solo una pagina, per una questione di sopravvivenza. Deve sparire quel foglio, l’agendina così diventa più leggera; o no?

“Il quattordici febbraio quindi ero a Salisburgo, perché la ditta ci aveva offerto un corso di formazione. Tecniche di vendita, approccio psicologico al cliente, consulenza per diversi capi di abbigliamento. Eravamo in undici; ero nella sala riunioni dell’albergo e avevo un freddo cane; eppure la stanza era riscaldata, tutti si toglievano le giacche, le donne si slacciavano i primi bottoni delle camicette e gli uomini sbirciavano, ma non io. Tremavo dentro e pensavo: mi sto ammalando, devo prendermi una pasticca.

“Segni del cielo, così ho pensato allora, dopo aver rimesso piede nella stanza vuota della mia bambina.

“Lei non c’era più; era all’obitorio in attesa dell’autopsia. Con mia moglie siamo andati a trovarla tenendoci per mano. Ciao Esther, le ho detto; sono stato così stupido e imbarazzato quel giorno e i giorni dopo e sempre. Ti prego, Signore, ho invocato, ascoltami per una sola volta e fa’ che lei torni a respirare. Per forza ci dev’essere rimasto del fiato in cielo, ho dichiarato ad alta voce, nella stanza di nostra figlia. Erano i pensieri che avevo in testa e a cui ho dato voce. Doris, mia moglie, ha pianto in cucina, al tavolo. Io no. Ho pianto solo molto tempo dopo, ma non ha importanza.

“Non sapevamo nulla. È stata Sandra la prima a dirci in faccia che la nostra Esther voleva farsi del male. Bugie!

“Ma per l’amor di Dio! Lì con noi, in soggiorno, a dire quelle cose un paio d’ore dopo che eravamo tornati dall’obitorio. Io non le ho mai creduto, mia moglie sì. Immagini un po’, signor commissario, Doris ha preso Sandra sul serio e io non gliel’ho mai perdonato, né prima né poi. Pare che nostra figlia avesse dentro una grande tristezza e così si è impiccata. Io ho troncato il discorso, sono tornato nella sua stanza e ho di nuovo pregato Dio, che creasse del fiato e che lo regalasse a Esther.

“Lo dico a lei perché mi ascolta e mi crede, glielo leggo in faccia. A parte lei, non l’ho confessato a nessuno.

“Adesso ho sessantaquattro anni, ne avevo quarantaquattro allora, ero un uomo affermato, commesso in un rinomato negozio di abbigliamento e proprietario di una villetta a Ramersdorf, con un bel giardino. Uno così non si inginocchia in camera e prega Dio che crei del fiato per la sua bambina. Anche i muri riderebbero; non mi lasciavo sviare dalle mie farneticazioni infantili, ero certo al cento per cento che nostra figlia non si era suicidata.

“Poi venne da noi un poliziotto, un suo collega, e ci disse che il medico legale non escludeva del tutto un intervento esterno; non del tutto.

“Non conoscevo quell’espressione, ma ho subito capito e creduto in quel che significava. Intervento esterno. Allora mi sono messo a inveire contro mia moglie, proprio davanti al commissario vestito di tutto punto. La sua cravatta scura, la giacca, l’aspetto posato non mi hanno impedito di dirgliene quattro, perché se lo meritava. Perché aveva dato ascolto alle scemenze che le aveva detto Sandra; perché non mi aveva telefonato a Salisburgo, era stata la polizia a chiamare in albergo. Gli altri colleghi avevano già tutti il cellulare, io ancora no; ma non c’entra; mia moglie avrebbe avuto la possibilità di mettersi in contatto con me; non c’era riuscita, mi ha detto dopo; ma io non le ho creduto.

“Intervento esterno significa che c’era qualcuno sul posto, con la corda. Qualcuno che ha avvolto la corda attorno al collo di nostra figlia e l’ha impiccata all’albero del parco di Bad-Dürkheimer-Straße. Ma la criminalpol ha escluso l’ipotesi, nonostante l’opinione del medico legale. Hanno interrogato ogni studente e analizzato ogni impronta, hanno giurato di averle tentate tutte. Non è così? Niente testimoni, niente prove.

“Mia figlia non aveva nessuna tristezza dentro, è stata vittima di un omicidio. E l’assassino lei lo deve trovare, signor Franck, glielo chiedo in ginocchio.”

III

I morti in visita

2

Riportò lo sguardo dal viso scarno, immoto, perfettamente rasato del padrone di casa alle sue mani pallide, ricoperte di peli, che per chissà quale motivo aveva poggiato sul tavolo; la loro vista lo inquietava, come il silenzio di cui si sentiva colpevole.

“Voglio dire...” riprese, poi si interruppe, con un movimento brusco ritrasse le mani dal tavolo e le infilò nelle tasche della giacca. Gli parve però segno di grande maleducazione, quindi le ritirò fuori e lasciò penzolare le braccia, mortificato e imbarazzato. Quando sollevò la testa Franck già non sorrideva più.

A Ludwig Winther riusciva difficile star lì seduto senza far niente. Bevve un sorso di caffè ormai freddo e con cautela rimise la tazza sul piattino, attento a non far cadere il biscotto che vi aveva posato.

“Le porto dell’altro caffè caldo,” propose Franck.

“Va bene così, non si disturbi, la prego.”

“Grazie di essere venuto,” aggiunse Franck.

Quella frase spiazzò completamente l’ex commesso. Tutto ciò di cui avevano parlato, lungi dal sollevarlo, lo aveva gettato in uno stato di shock che lo travolgeva, come la pazienza del commissario.

A tormentare Winther erano i dubbi sulle reali aspettative che aveva nutrito su quell’incontro e il motivo per cui, invece di procedere cauto, aveva rovesciato i suoi tormenti ai piedi di uno sconosciuto, come un cesto di panni sporchi; per giunta a casa sua; in un giorno festivo; a due mesi esatti dal congedo del commissario. Franck non era più responsabile del dolore altrui, tantomeno di un delitto compiuto vent’anni prima.

Ma di delitto si trattava, pensò Winther.

Con una certa difficoltà sfilò un fazzoletto blu dalla tasca dei pantaloni per tamponarsi gli angoli della bocca e lo tenne in mano finché non sentì su di sé lo sguardo del commissario. Allora lo ficcò appallottolato nella tasca della giacca e fece per riprendere la tazza; la mano gli tremava troppo.

“Ricordo bene.” Sempre intento ad ascoltare e osservare, pollice e indice pronti alla scrittura sul foglio, apparentemente impassibile sulla sua sedia, Franck costrinse l’interlocutore a tornare in sé.

“Certo, certo.” Winther avrebbe preferito alzarsi e scappar via. Pensava di aver balbettato, farfugliato, fatto discorsi insensati e inutili, di nessun interesse. Lo invase il panico; lo sguardo del commissario lo intimidiva; gli sudavano le mani e voleva chiedere perdono senza sapere di cosa.

“Ci beviamo una grappa?” chiese Franck.

“Oh, sì!” L’esclamazione gli uscì d’un fiato. Prima di accorgersi d’aver dimenticato di aggiungere un grazie, Franck si era già alzato ed era andato alla credenza; da una bottiglia panciuta versò l’acquavite di frutta in due bicchieri, tornò a sedersi e ne tese uno al suo ospite.

“Alla salute, signor Winther.”

Il commesso non proferì parola. Erano due o tre anni che non beveva grappa, gliene era mancata l’occasione; a casa aveva sempre qualche bottiglia di birra di scorta e il fine settimana se ne concedeva spesso un paio di bicchieri. Non appena avvertiva una lieve ebbrezza, smetteva. In principio quell’autodisciplina lo aveva inorgoglito, ormai però la giudicava esagerata e infantile.

Non era un alcolista e neppure un bevitore; era uscito dal tunnel, aveva vinto il vizio; era pulito, pensava. A cosa sarebbe servito stare buttato sul divano o vagare ubriaco per le strade di Berg am Laim?

La grappa era vellutata al palato; Winther si leccò le labbra fino all’angolo della bocca; l’alcol lo riscaldava, si sentiva rinvigorito e calmo allo stesso tempo. Sospirò sollevato, lo sguardo del commissario non lo intimidiva più.

“Nobile elisir,” disse. “È stata un’ottima idea. Devo dirle ancora una cosa, non me ne voglia. Non mi ricordavo più il suo nome. Mi sono torturato il cervello e ho scartabellato tra i documenti; ho centinaia di carte su quello che è accaduto, foto, articoli di giornale, il diario tenuto da mia moglie. Ma il suo nome non c’era da nessuna parte.”

Data una rapida occhiata al suo blocco, Franck tornò a concentrarsi sull’interlocutore, che nel frattempo si era colorito in viso e aveva ormai la mano ferma.

“E poi hanno dato un film in tv.” La voce di Winther aveva preso un tono quasi allegro. “Parlava di Anna Frank ad Amsterdam, e mi si è accesa una lampadina in testa. Mi è venuto subito in mente che il suo cognome si scriveva col ‘ck’, così ho chiamato il sevizio abbonati e ho avuto subito il suo numero di telefono. Non so dirle come mai il suo nome non compare da nessuna parte.”

“Comunque adesso è qui con me e beviamo grappa assieme.”

“Sì, esatto.”

“Sono passati ventun anni dalla morte di sua figlia,” calcolò Franck. “E sua moglie Doris...”

“Come mai è così preciso?”

“Scusi?”

“Riguardo al numero di anni trascorsi.”

“È stato lei a dirmi quanto tempo è passato.”

“Giusto. Mi scusi.”

“E sua moglie Doris è morta l’anno dopo.”

“Non è morta, si è uccisa. Si è impiccata, così come nostra figlia è stata impiccata. Da un assassino.”

“Ha nuovi elementi a sostegno della tesi del delitto, signor Winther?”

“Basto io a sostenerla.”

“Su che base?”

“Sulla mia convinzione.”

“Chi ha ucciso sua figlia? Verso chi nutre dei sospetti?”

“Nessun sospetto, ne sono certo. Potrei avere un altro goccetto? Solo se lo riprende anche lei.”

“Ma certo.” Franck versò la grappa, tappò la bottiglia, sollevò il suo bicchiere e restò un attimo a guardare perplesso le parole che aveva scarabocchiato sul blocco, senza ricordare di averlo fatto. Bevve, osservando il vedovo leccarsi di nuovo le labbra e posare il bicchiere sulla tovaglia con una goffa cautela, esattamente al centro dello spazio davanti a sé.

Franck attese che Winther tornasse a sostenere il suo sguardo. “Per quale motivo potrebbero aver ucciso sua figlia?”

“Non ne ho idea. Per stupidità?”

“I colleghi all’epoca non individuarono alcun movente, solo indizi delle intenzioni suicide della ragazza.”

“Nelle mie carte c’è tutto, ma non è vero.” Per un po’ Ludwig Winther resse il silenzio; evidentemente il commissario si rifiutava di aderire alla sua tesi; poi prese il fazzoletto, si tamponò la bocca e lo ripose. “Come mai, signor commissario? Sa quanti anni aveva Esther? Lo sa?”

“Diciassette.”

“Esatto, diciassette, ed era serena, aveva una bella famiglia ed era brava a scuola. Una ragazza così non scappa di casa e si impicca al parco. È un’assurdità. I commissari ci hanno abbandonato nella disperazione, ci hanno lasciati soli con la verità.” Winther chinò il capo e incurvò le spalle, come trascinato in basso da una forza di gravità interna. Respirava a fatica, le braccia inerti.

“Vuole un bicchier d’acqua?” chiese Franck. L’uomo scosse stancamente la testa.

Franck si domandò se non fosse il caso di interrompere la conversazione, aprire la portafinestra, preparare un bel caffè e spingere il suo ospite a parlare di qualcos’altro. Col tempo aveva imparato a sfruttare la tensione e il turbamento di un teste, a non farlo rilassare, inducendolo alla confessione, mettendo in conto che in seguito poteva essere ritrattata.

Per l’ennesima volta si sorprese a ragionare come durante un interrogatorio ufficiale, con l’unico obiettivo di arrivare a esiti spendibili in fase giudiziale. Ma chi aveva di fronte, curvo sotto il peso del vuoto della sua vita, non era un teste, bensì un familiare, un superstite, il padre di una figlia e il coniuge di una moglie che si erano entrambe impiccate, lasciandolo solo a vagare nei meandri dei suoi interrogativi.

Dentro gli occhi di quell’uomo, pensava, si annidava l’uccello nero della solitudine, a lui ben noto dopo gli infiniti incontri con persone devastate dal destino.

“Mi racconti di sua figlia Esther,” riprese.

“L’ho già fatto.” Confuso, Winther sollevò il capo. “Ci ho provato. Era bella, capelli lunghi e neri, affettuosa; averla accanto piaceva a tutti. Io so che è sbagliato quello che gli atti riportano; lei non voleva morire, mai e poi mai.”

“Dopo tutti questi anni,” disse Franck scandendo le parole e con un tono deciso che non ammetteva repliche, “lei si dà la pena di rintracciarmi pur avendo dimenticato il mio nome; mi telefona anche se le manca il coraggio; mi chiede un colloquio; vince la sua timidezza e viene a casa mia; mi chiede di trovare l’assassino di sua figlia, anche se la morte di Esther è stata dichiarata un suicidio con tanto di prove. La prego, signor Winther, non mi interrompa. Lei sostiene di non nutrire sospetti nei confronti di nessuno e che sua figlia era una ragazza felice, serena, libera da malinconie e lontana da qualunque pensiero cupo. Io non le credo.

“All’epoca, come lei ben sa, non ho condotto le indagini, ma c’ero io con sua moglie mentre lei era a Salisburgo al corso di formazione, conosco bene il caso. Non sappiamo se la morte di sua figlia sia dovuta a un intervento esterno, come non lo sa lei, signor Winther; l’ipotesi del medico legale, se non vado errato, si basa sulle tracce rinvenute sulla corda e sulle sue perplessità circa la modalità con cui la ragazza si sarebbe arrampicata sull’albero e successivamente impiccata. A quanto mi risulta le perplessità sono state chiarite; come lei stesso ha affermato, gli inquirenti non hanno rinvenuto tracce o indizi concreti a carico di un eventuale assassino.

“Invece alcuni compagni di scuola hanno dichiarato che Esther già da qualche tempo prima della morte era cambiata, era più solitaria, sembrava abbattuta, non ricordo ora i dettagli. In ogni caso la ragazzina da serena era diventata improvvisamente chiusa e silenziosa.

“E devono esserci stati anche dei conflitti familiari, che i colleghi non hanno potuto appurare, perché né lei né sua moglie avete voluto esprimervi a riguardo. Mi dica se sbaglio. Mi dica se la pensa diversamente. E, soprattutto, mi dica chi è la persona che secondo lei potrebbe aver commesso l’omicidio di sua figlia facendolo passare per suicidio. Di chi sospetta?”

“È stato Jordan, chi altro!” esclamò Winther con la voce che gli tremava.

I due uomini erano in balcone a fumare. Né l’ex commissario Jakob Franck né l’ex commesso Ludwig Winther si godevano in pace le rispettive sigarette; anche se all’offerta del padrone di casa di fare due tiri per rilassarsi, l’ospite aveva accettato senza esitare.

Franck aveva preso il pacchetto dal cassetto dove lo conservava per non cadere in tentazione. A seguito di qualche problema bronchiale e gastrico, rivelatosi poi di poco conto, da quindici anni aveva smesso di fumare, una decisione che fin dall’inizio gli era costata più stress di qualunque visita medica; si era comprato delle scarpe da jogging per correre regolarmente; faceva le scale invece di usare l’ascensore; cercava di seguire un regime alimentare più sano, a suon di insalate in tutte le varianti; era passato dal caffè dolce al tè senza zucchero; ingollava litri di acqua minerale ed era dimagrito di sei chili senza minimamente capirne lo scopo, a differenza del suo medico curante. Dopo neppure un anno era tornato, seppur con moderazione e minor foga, al caffè e alle sigarette, alle camminate rilassate nel quartiere, aveva limitato l’apporto vitaminico alle banane e non aveva più toccato una foglia di insalata. Da allora si sentiva in forma più che mai, soprattutto perché quasi non toccava alcol e spesso si dimenticava di fumare per giorni interi.

Da giovane Winther si rollava le sigarette e non usava mai l’accendino, solo fiammiferi, cerini in genere, con cui all’inizio si bruciava le dita completando così il rituale. Sebbene la moglie, da quando era rimasta incinta, l’avesse pregato di astenersi dal fumo, lui aveva continuato di nascosto, anche dopo la nascita di Esther, ma mai in presenza della bimba. Dopo la morte di Esther aveva smesso per un periodo, finché il suicidio della moglie non aveva annullato qualsiasi autodisciplina. Bere e fumare divennero un tutt’uno, il disgusto per se stesso e il puzzo di osteria lo avvolgevano come una cappa; ci mise molto ad accorgersi che i suoi amici pian piano erano spariti. Era stato proprio l’oste della sua osteria preferita, in una notte in cui il buio fuori sembrava quasi chiaro in confronto al nulla nero dentro al suo cervello, che gli aveva indicato l’annuncio pubblicato da un negozio di bevande. Cercavano un autista. Non aveva mai capito perché Micha, l’oste, avesse pensato proprio a lui per quel lavoro.

Winther non era l’unico cliente disoccupato dell’osteria, per il quale il mondo esterno esisteva ormai solo come bersaglio d’odio. Nell’arco di poche settimane era entrato a far parte dello staff di collaboratori fissi del negozio di bevande Giebl sulla Schwanseestraße; per quasi un anno non aveva più bevuto alcol, e si era concesso una sigaretta solo il fine settimana. Dopo tanto tempo era cambiato ben poco.

Per via della grappa e dell’aria fresca sul balcone gli girava un po’ la testa, ma aspirava lo stesso il fumo a pieni polmoni.

“Si sente bene?” chiese Franck.

“Benissimo. È bello qui. Pensavo che Industriestraße fosse rumorosa e fuori mano, in realtà è in pieno centro. Non ero mai stato ad Aubing.”

“È stata la prima casa dove abbiamo vissuto insieme, mia moglie e io.”

“Che ne è stato di sua moglie?”

“Ci siamo separati.”

Per qualche secondo Winther si estraniò dal presente. L’aria fredda e il fumo pungente della sigaretta fugarono i suoi pensieri; schiacciò il mozzicone nel posacenere che Franck aveva piazzato dentro una fioriera vuota. “Non si è risposato?”

“No. Come lei.”

“Ha ragione. Posso confessarle una cosa? Per anni non mi è neanche passato per la mente di risposarmi. Come se avessi dimenticato che era possibile. Ha una nuova compagna?”

“No.”

“Nemmeno io. L’ha avuta negli ultimi anni?”

“No.”

“Come me. Strano vero? Non ci conosciamo eppure abbiamo in comune cose così importanti.”

“Forse per noi non erano cose così importanti.”

“Non lo so signor... Franck. Mi scusi... so bene come si chiama, sono solo confuso; per tutto; e perché lei vive solo in questo grande appartamento, come me nel mio bugigattolo di Ellingerweg. La solitudine può dare dipendenza, l’ho capito; all’inizio serve a sopravvivere e a liberarsi del passato; tutte le mattine si è felici di essere ancora al mondo. Ho ragione o no? Lei che dice, signor Franck?”

“Vuol sapere se sono felice di essere ancora vivo?”

“Sì, scoprirlo può servire a superare il lutto, la vita può tornare a sorriderti. Oppure pensarlo è una sfida al destino? Mia moglie è morta, mia figlia è stata uccisa, e una mattina io mi sveglio e capisco che sono vivo e ho ancora della vita davanti a me. È un pensiero consentito?”

“Altrimenti si muore.” Franck rabbrividì e si chiese se fosse solo perché si era fatto più freddo lì fuori.

“Non si dovrebbe morire quindi? Come mai io sono ancora al mondo e i miei cari no? Perché mia figlia è dovuta morire e mia moglie andarle dietro? Dove sta scritto? Oppure... oppure...”

“Vogliamo rientrare?”

“Sì, un attimo solo.” Sotto la giacca del completo Winther portava un pullover a collo alto; non sentiva il vento gelido, lo percepiva come un fiato inatteso, che dava vita alle sue parole. “Ma non è quello che volevo dire. La solitudine è come l’alcol, ci fa stare bene, non ci basta mai; ce ne ubriachiamo costantemente e lo giudichiamo normale. Forse invece per lei star solo non è la normalità.”

“Sì che lo è.”

“Sì. Lo dice anche lei. È un’esperienza che ci dà piacere; crediamo che sia la vita, in realtà è solo lo scantinato della vita. Perché stiamo sotto e non abbiamo vicini. Non è così? È vero, glielo leggo in faccia. Io non riuscivo più a uscire, dallo scantinato, dall’alcol, dalla solitudine. Lei vive qui in periferia o appena fuori città; io quasi in periferia; poco importa se abbiamo una stanza, o tre o quattro, abitiamo la solitudine e questo non può far bene. Ci invecchia, ci rende scorbutici; ogni giorno ci chiediamo perché noi siamo vivi e gli altri no. Ogni giorno dell’anno. Non è così per lei?”

“No.”

“Allora mente a se stesso. Scusi, mi è scappato, non volevo affatto offenderla, non so perché parlo così tanto, in genere non lo faccio, mai.”

“Parli pure, è venuto per questo,” disse Franck.

Mentre si tamponava gli angoli della bocca con il fazzoletto blu, Winther annuiva e, come prima dentro l’appartamento, sembrò per un attimo liberato del suo fardello. “Lei mi ascolta ancora, le rubo un altro po’ di tempo. Dovevo assolutamente venire, deve credermi.”

Franck non sopportava più di vedersi la pelle d’oca sulle braccia – dopo la seconda grappa aveva arrotolato le maniche della camicia – e, superando l’uomo, raggiunse la portafinestra. “Lo so, e adesso vorrei tornare dentro al caldo.”

“Le spiace se resto fuori?” Winther lo chiese con un’espressione così seria e decisa che Franck, già all’interno, si voltò a fissarlo. “Tre minuti,” rispose e incrociò le braccia dietro la schiena; tirarsi giù le maniche sarebbe stato inutile.

Il commesso aveva riposto il fazzoletto nella tasca della giacca e si era avvicinato di un passo alla porta. Evidentemente non trovava la situazione affatto ridicola.

“Come potevo pensare a un nuovo legame? Per tre o quattro anni non mi è neppure passato per la mente. Avevo vinto l’alcolismo e potevo contare su un buon lavoro al negozio di bevande; mi alzavo tutte le mattine alle sei e tornavo a casa verso le diciotto; come adesso; devo lavorare un altro paio d’anni, se la vista e i riflessi mi assistono ancora nel traffico. E una mattina mi sveglio e penso: sono solo, non c’è più nessuno; certo, qualche amico ha capito che non sono più un ubriacone e ha ripreso i contatti. Ma oltre a questo? Nessuno. Non avevo neppure più esigenze. Esigenze fisiche, intendo. Lo reputa possibile?”

“Comunque è insolito,” replicò Franck.

“Esatto. Del tutto insolito. Non le chiedo come gestisce le sue esigenze fisiche, sono cose personali. Io ho cercato di frequentare una donna, dopo essermi reso conto che la solitudine era diventata una droga per me; volevo evitare qualsiasi dipendenza, ma era tardi. Così ho pensato, non sembro mica uno spaventapasseri, ci sarà pure una donna che si muove a compassione per me. E così è stato; è durata tre mesi; poi l’ho lasciata.

“Le dico anche perché non è andata bene,” aggiunse dopo una pausa di silenzio. “Piangevo, la mattina presto. Mi svegliavo col viso rigato di lacrime, non è una bella cosa. E avevo accanto quella donna, un corpo morbido da stringere, voluttuoso, passionale; passavamo ore bollenti, mi creda; ma la mia bambina piangeva attraverso di me. Era così imbarazzante che ho dovuto dire alla donna di andar via e non farsi più vedere. Cosa che ha fatto. Dalla solitudine non si torna indietro, mai; se non si fa attenzione ci si crepa dentro, come con l’alcol.”

Nel cuore della notte, alla luce calda della lampada dello scrittoio, Franck alla fine smise di chiedersi come gli fosse venuto in mente, ore prima, di uscire di nuovo sul balcone, abbracciare il fattorino del negozio di bevande e stringerlo per qualche minuto nella terribile atmosfera del giorno dei Morti.

IV

I morti in visita

3

Il nome, spiegò Ludwig Winther, ricorreva costantemente negli atti e negli appunti che aveva preso di persona; non ne aveva tenuto conto perché si trattava di un vicino di casa benvoluto da tutti. Il dottor Paul Jordan – il nome di battesimo del fratello condannato lui non se lo ricordava, ma giurò di averlo annotato – era un dentista che esercitava in un poliambulatorio nella zona della stazione Est. Nel vicinato a suo tempo era corsa voce che Jordan avesse un debole per le giovanissime, tra cui riscuoteva un certo successo.

Come d’abitudine Franck prese nota dei nomi sul blocco. “La gente pensava che avesse rapporti con delle studentesse,” disse Winther.

Tornati al tavolo, entrambi bevvero un’altra grappa; l’ex commissario avvertì a poco a poco il bisogno di silenzio e solo a fatica riuscì a non sentirsi aggredito e schiacciato dall’insistenza e dalla dolorosa schiettezza del suo ospite. Forse, pensò Franck, era la grappa a renderlo insofferente; forse l’uomo rientrava tra gli ospiti predestinati di certi giorni, con la differenza che Ludwig Winther era vivo, anche se apparentemente non meno esposto di Franck alla furia del suo passato.

E l’abbraccio della donna.

Era parecchio che non ci ripensava; poco prima, però, gli era tornato in mente in modo così inatteso, e con una forza tale, da costringerlo a ripetere il gesto di allora: uscire sul balcone e abbracciare d’impulso il suo ospite, lasciandolo senza parole; parole che aveva ritrovato solo dopo un’ulteriore grappa.

“Non ci credevo; oggi invece non solo ci credo, ne ho la totale certezza; so che ha rapporti con delle minorenni, che la moglie ne è al corrente e che ha sedotto anche la mia Esther. Ecco perché sono venuto da lei. Perché ho la prova e quell’uomo non può restare impunito, lei deve impedirlo.”

“Sua figlia vi aveva dato motivo di temere per la sua vita?” chiese Franck.

“Certo. Ma noi, mia moglie e io, siamo stati così stupidi da non leggere tra le righe quello che lei non osava dire apertamente.”

“Ricorda qualche accenno particolare?”

“Ha detto che c’era qualcuno che non le piaceva, ma che era gentile e carino; parole testuali; le ho annotate. Che stupido sono stato; avrei dovuto portare tutti i miei appunti, così lei avrebbe potuto credermi. Per non precipitare le cose volevo prima parlare con lei e la ringrazio per avermelo concesso.”

“Non deve ringraziarmi. Non ha scoperto a chi alludesse sua figlia?” domandò Franck.

“Certo che sì. Al dottor Jordan.”

“Ne ha parlato con lui?”

“No.”

“Ha parlato del dentista con sua moglie?”

“No, lei non voleva.”

“Per quale motivo?”

“Era sua paziente e mi odiava perché lo incolpavo.”

Franck attese che Winther si asciugasse la bocca e riponesse il fazzoletto. “Sua moglie era convinta fin dall’inizio che sua figlia si fosse tolta la vita per altri motivi.”

“Sì.”

“Allora doveva sapere il perché.”

“Non lo sapeva, le sue erano solo fantasie.”

Quest’uomo mente, pensò Franck per la prima volta, trovandosi spiazzato.

I familiari dei suicidi raramente rivelavano i propri segreti, non lasciavano trapelare l’indifferenza nella vita di tutti giorni, né le loro sensazioni, la paura di sbagliare. Ingannavano se stessi, i medici e la polizia, per gli inquirenti era pane quotidiano. Da commissario, Franck, raramente aveva mosso accuse ai familiari in lutto, se non in caso di evidente intralcio alle indagini.