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Attenta al lupo, Anna

© Eugenia Tantucci
©HakaBooks.com 2013


Disegno di coperchio: Daniel Sierra
Autoedición e disegno: HakaBooks.com

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Diputación 319, ático
08009 Barcelona
books@hakabooks.com


ISBN: 978-84-15409-79-3

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LEGGERE DI PIÙ

Pagine scelte per ragazzi da 10 a 15 anni

Leggere è un piacere e un bisogno.

Se leggi di più, cioè altre pagine oltre quelle dei libri di testo, provi un altro piacere, diverso da quello, indubbiamente bellissimo, che ti procura la conoscenza delle coordinate geografiche, dei fatti storici, delle regole di matematica, delle leggi scientifiche ecc, ecc... Si tratta di un piacere che va oltre il bisogno di conoscere: un piacere particolare, tutto “tuo” che ti fa sognare, fantasticare... perché ti mette in contatto con persone, cose e vicende reali o no con cui entrare in relazione, stabilire dei rapporti ideali e confrontarti.

La prima lettura di un testo devi farla da solo, perché costituisce un’esperienza del tutto personale, ma per aiutarti nelle tue riletture ti offriamo alcune piste di lavoro di analisi e di riflessione: non sarà un lavoro noioso, perché ti aiuterà a capire di più ciò che leggi e, quindi, a soddisfare meglio il bisogno e il piacere di leggere.

L’Editore.

Prefazione dell’editore alla
versione stampata: Sciascia, 1997.

ATTENTA AL LUPO, ANNA

Introduzione alla lettura

Con l’inizio del Novecento il romanzo ha abbandonato il percorso veristico del quotidiano e del sociale, orientandosi verso un’attenta osservazione dell’uomo e dei suoi problemi esistenziali. Lo scrittore del primo Novecento guarda l’interiorità dell’uomo e lo analizza nei suoi più riposti caratteri, come notiamo nei romanzi di Svevo e di Pirandello, nei quali l’uomo è studiato nei suoi molteplici aspetti e messo in continuo confronto con una realtà ostile.

Nel periodo del Neorealismo, dagli anni ‘40 agli anni ‘50, vi è una larga produzione di romanzi che esprimono i sintomi e le difficoltà di una società in rapida trasformazione.

Tra i romanzieri più letti di quel periodo figurano Vasco Prato1ini, Elio Vittorini e Italo Calvino.

Oggi il romanzo appare costruito da diversi piani, come ci ha dimostrato Umberto Eco e non privilegia soltanto una tematica precisa ma si apre a tutte le sollecitazioni offerte dalla complessa società contemporanea.

Questo romanzo, pur non trascurando il contesto storico e sociale, riserva uno spazio notevole alle vicende private e ai sentimenti dei personaggi.

Il meccanismo narrativo del romanzo ha la seguente articolazione: il titolo, il narratore esterno e i1 suo punto di vista, la struttura del romanzo, le tematiche della storia, l’evoluzione del racconto, l’atmosfera e lo stile del romanzo, il sistema dei personaggi (le relazioni, i ruoli femminili e maschili, i piani di importanza).

Se un libro può essere considerato strumento di ricerca e di conoscenza, a questo si è riferita l’autrice nella scelta del titolo della sua opera.

Il romanzo pone informazioni e sollecitazioni che riguardano i mali della società contemporanea.

“Il lupo” rappresenta la mafia, la corruzione, il razzismo, i pregiudizi di ogni sorta che allontanano l’uomo dal suo simile e falsano i valori, sostituendoli con ideologie di comodo, con messaggi di morte.

I personaggi del romanzo, nelle loro vicende, liete e tristi, sono sempre messi di fronte alla propria coscienza, alla personale responsabilità delle loro azioni. Il destino di chi non è riuscito ad amare e a farsi amare è la solitudine.

L’obiettivo dell’autrice, cioè del narratore esterno, è stato quello di inserire atmosfere, situazioni, personaggi, elementi moderni nell’ambito della narrazione. Il contesto storico non è appesantito, ma diviene parte integrante del racconto, dove alcuni momenti della storia dei nostri tempi e la presentazione di alcuni protagonisti dipende anche da operazioni che riguardano l’immaginario, che è legato a determinate visioni e interpretazioni della storia e del costume.

La scelta dei riferimenti é dovuta al proposito di avvicinare i giovani a episodi e situazioni che offrano materia di riflessione e di critica.

Quale autrice del romanzo auguro agli studenti di fare attraverso le pagine del testo una piacevole esperienza di lettura.

Eugenia Tantucci

I

Anna abitava con sua madre Valentina e con sua nonna Clotilde a Roma, nel rione Prati, in un edificio prossimo al Tevere ed ai palazzi del Centro Storico. Dietro l’edificio c’era uno spiazzo erboso, con vari arbusti e una magnolia alta e fiorita. In quello spiazzo, dove assai di rado scendeva qualcuno, Anna trascorreva alcune ore dei suoi pomeriggi guardando il cielo e le nuvole, ma più spesso andando dietro i suoi pensieri.

Da quando i suoi genitori avevano deciso di divorziare e suo padre Luigi era andato ad abitare in un’altra casa, le inquietudini di Anna erano aumentate. Si preoccupava soprattutto per gli umori sempre più mutevoli di sua madre. L’aveva sorpresa in camera sua, davanti allo specchio, mentre si fissava con la fronte aggrottata e storceva la bocca. L’aveva udita lamentarsi e ripetere che era stanca e depressa. Nei giorni in cui non andava al lavoro si chiudeva in camera sua e se ne stava lì dentro a parlare da sola. Più volte, alle sue domande, aveva risposto bruscamente.

Quando Anna aveva chiesto alla nonna le ragioni di quei comportamenti Clotilde aveva detto:

–Ha dei problemi che non si possono capire alla tua età. Non hai ancora compiuto sedici anni. Non preoccuparti. Presto tutto sarà come prima.

Negli ultimi mesi Valentina era uscita spesso di sera e una notte Anna, svegliata da un motore acceso sotto la sua finestra, aveva guardato in strada e aveva visto la madre scendere da un’automobile e attardarsi a salutare il guidatore. Da tempo Valentina non nominava più Luigi, l’ex marito che ormai veniva di sabato mattina ad aspettare sotto il portone la figlia e la riconduceva a casa prima di notte. Valentina appariva allegra come un tempo solo quando tornava dai suoi viaggi di lavoro, con tanti doni e altrettante tenerezze.

Valentina era una donna attraente, con i capelli folti, neri come gli occhi, la bocca carnosa, dipinta di un rosso forse un po’ troppo acceso, la voce calda a momenti impetuosa, la figura snella ed elegante. Più Anna pensava a sua madre, più la sentiva distratta e lontana e, alla fine delle sue riflessioni, concludeva che non v’era altro da fare che accettarla com’era. Si prometteva di smettere con le sue provocazioni, con le quali cercava solo di capire se ancora l’amasse.

–Il problema dell’età –pensava Anna– non é il corpo che muta, ma la mente che deve sforzarsi di capire troppe cose e che invece avrebbe bisogno di aiuto da chi ne sa di più.

Se ne stava distesa sull’erba e guardava le nuvole, che sulla sua testa andavano assumendo forme continuamente diverse, ora strane e paurose, ora simili a un fiore o ad un uccello immenso, e che le comunicavano una sensazione forse più vicina allo smarrimento che a un piacere sconosciuto. Spesso le tornava in mente il tempo in cui i suoi genitori vivevano insieme e la sua era ancora una famiglia unita. Allora suo padre veniva a sedersi vicino a lei sull’erba e ascoltava divertito i racconti di quel che le era accaduto a scuola. Ora quel tempo le sembrava lontanissimo e si diceva che niente sarebbe stato più cosi piacevole.

Dopo il divorzio dei genitori era cominciata per lei una nuova esistenza. La madre, alla quale per legge era affidata, passava molte ore fuori casa e, quando era a casa, faceva sentire assai poco la sua presenza. Anna soffriva di ciò, nonostante l’affetto e la vicinanza della nonna. Riparava alla solitudine passando ore al telefono con i compagni e le compagne di scuola, oppure ascoltando musica anche mentre studiava.

Da parte sua Valentina si sentiva ogni giorno più turbata dal comportamento della figlia, la vedeva crescere nel corpo e nelle esigenze e le diventava sempre più difficile intenderla. Anna la irritava, moltiplicava la sua ansia, rifiutava i suoi consigli e la sua protezione, irrideva quelle certezze che a volte lei, la madre, le prospettava. Tuttavia Valentina non si dava per vinta e, seguendo i suoi impulsi, s’adoperava in molti modi per riconquistare l’affetto e la fiducia della figlia. Non poche volte, tornando dall’ufficio, acquistava il vestito o l’oggetto che, qualche giorno prima, sostando con lei davanti a una vetrina, Anna aveva ammirati. La figlia, prendendo il dono, si limitava a un veloce ringraziamento. Poi, la sera, quando s’incontravano a cena, Anna mostrava alla nonna il dono ricevuto.

Una sera Valentina annunciò che aveva invitato a cena per la sera seguente il suo capufficio. Disse timidamente:

–Si chiama Mauro.

Aggiunse:

–E una persona molto garbata... Vive solo...

La notizia fu accolta in silenzio, sia da Clotilde che da Anna.

Il giorno dopo Clotilde passò molte ore in cucina, quindi apparecchiò la tavola con cura e mise fiori nei vasi dell’ingresso e in quelli del soggiorno.

Quella sera l’ospite, un uomo ancora giovane, alto di statura e con una faccia simpatica, ebbe molte parole di lode tanto per la casa che per la cena. Valentina aveva indossato un abito grigio che ne metteva in risalto il busto tornito, aveva sciolto i capelli sulle spalle e il suo volto era disteso e sorridente.

Anna aveva tardato a presentarsi a tavola, s’era chiusa nella sua stanza e non aveva nessuna voglia di conoscere l’uomo con cui sua madre usciva di sera. Lo detestava senza conoscerlo e non riusciva a sopportare neanche II pensiero che un altro sedesse al posto del padre. Per prendere tempo aveva telefonato al padre, ma questi, come accadeva spesso da alcune settimane, non aveva risposto. Per ciò Anna s’era sentita abbandonata e infelice, in un mondo sordo ai suoi bisogni. Poi la madre aveva chiamato con tono deciso ed era stata costretta a muoversi.

Anna s’era presentata con indosso la gonna scura e la camicia a quadri con cui andava a scuola. Soltanto i suoi capelli, ramati come quelli di suo padre, erano stati energicamente spazzolati.

Quando Anna entrò nella sala l’uomo era in piedi e le volgeva le spalle. Stava bevendo un aperitivo e parlava con Valentina; ad un tratto entrambi sbottarono in una risata carica di complicità. Voltandosi verso Anna l’ospite sorrise e la ragazza, dopo aver risposto con un cenno del capo, sedette in silenzio.

Durante la cena l’invitato conversava con la disinvoltura di chi è sicuro dell’altrui simpatia. La nonna, dopo gli elogi alla casa e ai cibi, era già tutta dalla sua parte. Valentina poi, al massimo dell’allegria, non aveva occhi che per lui, e solo, di tanto in tanto, rimproverava alla figlia di non far onore a una cena cosi eccellente. Anna, ad un certo punto, sentì intorno a sé un’aria di attesa. L’uomo le aveva rivolto una domanda e sua madre stava dicendole:

–Mauro ti ha chiesto se ti piacerebbe andare domenica prossima nella sua casa in campagna.

Anna non rispondeva. Non avrebbe voluto cancellare l’allegria dal volto di sua madre, ma nemmeno le riusciva di dominare l’ostilità per l’intruso.Per ciò guardò l’uomo e gridò:

–Lei non mi piace. Lei non prenderà mai e poi mai il posto di mio padre.

Quindi s’alzò e lasciò di corsa la stanza, senza guardare il volto arrossato della madre e quello interdetto dell’ospite. Rifugiatasi in camera sua, raggomitolata sul letto, Anna pianse tutte le lacrime che da mesi le stagnavano in petto e negli occhi. Quando si calmò nel resto della casa regnava un totale silenzio. Allora si asciugò le guance con il bordo del lenzuolo, si voltò sul dorso e di lì a poco s’addormentò.

II

Il giorno seguente Anna, invece di andare a scuola, decise di vedere suo padre. Sentiva il bisogno di parlargli, di assicurarsi del suo affetto. Per ciò raggiunse l’altra sponda del Tevere, percorse una strada alberata e salì al primo piano di un vecchio edificio circondato di palme.

Bussò alla porta d’ingresso e nessuno venne ad aprirle. Allora decise di entrare in casa scavalcando la ringhiera del piccolo terrazzo sul quale si trovava il balcone della cucina. Sul terrazzo vide che nei vasi i gerani avevano i fiori vizzi e il terreno arso. In cucina le venne fame, cercò nei cassetti e nel frigorifero, trovò un panino del giorno prima e un barattolo di maionese. Mangiò seduta a1 tavolo, sul quale stavano ammucchiate le stoviglie usate il giorno prima dal padre. Aveva sete, ma tardava ad alzarsi per prendere l’acqua. Così, masticando in fretta inghiottendo a fatica, riuscì a calmare la fame e trovò finanche saporito il panino con la maionese. Non potè fare a meno però di pensare al caffellatte bollente e zuccherato preparato dalla nonna che, a quell’ora, stava sbrigando le faccende in casa e la immaginava a scuola.

Quando ebbe finito di mangiare Anna uscì nel corridoio e si diresse nella camera da letto. Qui, nello specchio dell’armadio si vide il volto pallido e i capelli arruffati. Dalla finestra entrava un raggio di sole e la ragazza trascinò in quella luce la sedia, che si trovava accanto al letto, e restò seduta a crogiolarsi. Ma continuava ad essere inquieta. Avrebbe voluto che suo padre fosse lì presente e le chiedesse di restare e insistesse per non farla andare più via.

Se ne stette a lungo con gli occhi chiusi dentro quei pensieri. Infine si alzò, rimise la sedia al suo posto e fece un poco di ordine nella stanza. Tardava ad andarsene perché sperava che il padre tornasse da un momento all’altro. Pensava con fastidio alle domande che la nonna le avrebbe fatto al suo rientro.

Uscendo sul piccolo terrazzo guardò le case di fronte. Era passato mezzogiorno ed era ora di andarsene. Cercò nella cartella un foglio di carta, scrisse poche parole per il padre, quindi lasciò il biglietto sul tavolo della cucina. Traversando il terrazzino rivide i gerani secchi, allora tornò in cucina, riempi una pentola di acqua e uscì ad innaffiare abbondantemente le pianticelle assetate. Stava per scavalcare la ringhiera quando sentì una fitta sotto il piede sinistro. Subito si tolse la scarpa e vide che aveva una piccola ferita al calcagno. Ricordò che sua madre più volte le aveva raccontato di bambine che, non avendo disinfettato le loro ferite, avevano rischiato di brutto per il sopraggiungere di infezioni o, addirittura, erano morte per il tetano. Convenne che, anche se era un taglio minuscolo, doveva preoccuparsene, tanto più in un momento in cui nessuno si preoccupava di lei. Così rientrò in cucina, traversò il corridoio e si recò nel bagno, ben attenta a non toccare il pavimento con il calcagno ferito. Mentre pennellava il taglio, con la tintura di iodio che aveva trovato nello stipo dei medicinali, le tornò in mente la canzone che suo padre fischiettava, e a volte cantava, mentre si radeva e lei lo guardava attenta. Era malinconica quella canzone, così la ricordava anche se suo padre la cantava distratto e ne saltava le parole. In quella canzone si parlava di una donna con gli occhi celesti e questo a lei pareva strano, perché gli occhi di sua madre erano neri. Così, più di una volta, s’era domandata perché suo padre nominasse quegli occhi celesti. Aveva anche immaginato che forse suo padre, un tempo, aveva avuto una fidanzata con gli occhi di quel colore. Poi, recentemente, aveva capito che quello era solo il motivo di una canzonetta e che il padre lo fischiettava o cantava pensando ad altro.

II ricordo di quella canzone la riportò al tempo in cui erano ancora tutti uniti e si rattristò. Gli occhi le si riempirono di lacrime e con le lacrime si sciolse e scomparve anche la sua tristezza.

III

Anna frequentava la prima liceale e la sua era una classe mista. Fra i suoi compagni c’era un ragazzo di pelle nera, II suo nome era Omar e veniva dalia Namibia, una regione africana fra le più ricche di parchi naturali.

Omar studiava con impegno e non mostrava di offendersi, né di soffrire, per i compagni di classe che continuavano ad evitarlo fuori della scuola e non lo invitavano mai alle loro feste.

Un giorno era capitato che Omar ed Anna, usciti dalla scuola, avevano percorso insieme un tratto di strada e avevano discusso animatamente fino al capolinea degli autobus che li avrebbero portati a casa. Da quel giorno presero l’abitudine di tornare insieme e i loro discorsi si fecero sempre più vivaci e interessati. Se non si risparmiavano punzecchiature, diventavano sempre più curiosi l’uno dell’altra.

Un giorno Anna aveva chiesto ad Omar:

–Non ti dispiace che i nostri compagni ti tengano a distanza?

–Credono che vorrei essere bianco anch’io. Non capiscono che non voglio appartenere ad altra razza che alla mia –rispose Omar e subito domanda con tono perentorio:

–Tu pensi che io desidero di essere bianco?

Anna esitava a rispondere, infine azzardò:

–Se fossi bianco... –e qui s’interruppe, rendendosi conto che non aveva idee abbastanza chiare in proposito.

Omar capì quel che Anna non riusciva a dire:

–...Se fossi bianco i nostri compagni m’inviterebbero nelle loro case, camminerebbero con me per strada... È questo che vuoi dire?

Anna s’era azzittita e lui insistette:

–Secondo te, se fossi un ragazzo bianco sarei migliore?

–Non capisco che cosa vuoi dire –replica la ragazza.

Omar si era fermato e cercava le parole più chiare:

–Tu credi che i negri non siano uguali ai bianchi, che valgano meno di loro. È cosi? –Non le diede il tempo di rispondere e continuò:

–Ora devi dirmi, ma pensaci bene, se tu credi che un negro valga meno di te o se sia un tuo uguale.

Anna scosse la testa e non rispose.

–Sto cercando di farti capire –riprese Omar– che solo il colore della pelle ci rende diversi. Per tutto il resto siamo uguali, abbiamo un cuore e una mente che pulsano e pensano con la stessa energia, secondo la stessa legge naturale.

Dopo quei discorsi Anna si sentiva turbata. Non era passato molto tempo da quando aveva una concezione chiara e semplice della vita e del mondo. Allora ogni cosa le sembrava al posto giusto. Ora invece le persone, gli oggetti, gli stessi sentimenti le si presentavano in uno stato di confusione e di disordine. Quanto a ciò che Omar le aveva detto, e per il poco che aveva capito, doveva riconoscere che, davanti a tanta semplicità e chiarezza, le sue convinzioni scemavano. Stava arrivando a vergognarsi delle sue idee passate, così come fino a quel momento si era vergognata della compagnia del ragazzo negro. Ancora però si domandava:

–Che direbbero i miei genitori se sapessero che ho per amico un ragazzo negro? Mio padre non crederebbe ai suoi orecchi e mia madre ne sarebbe disperata.

A questo punto s’immaginava di rispondere ai rimproveri della madre:

–Non ho fatto altro, che parlare con lui mentre tornavamo da scuola.

E le sembrava di udire la risposta indignata di sua madre:

–Oseresti dire che non c’è niente di male a farsi accompagnare da un negro?

Dal canto suo Omar era ben contento di poter camminare per strada con una sua compagna di scuola e di avere finalmente trovato qualcuno con cui affrontare certe questioni. Già, nei primi tempi in cui era venuto in Italia, s’era convinto che i pregiudizi razziali possono essere superati solo quando gli appartenenti a razze diverse cercano di conoscersi e di intendersi.

IV

Da quando si era separato dalla moglie Luigi, il padre di Anna, soffriva di solitudine e non riusciva nemmeno a immaginare un nuovo modo di vivere. Trascorreva le notti senza dormire, immerso nei suoi pensieri, facendo e rifacendo il bilancio della sua vita, domandandosi per quali ragioni il suo matrimonio era finito.

V’era stato un tempo in cui aveva fatto di tutto per ottenere l’amore di Valentina. Era invaghito di quel volto dai tratti delicati, dei suoi occhi neri e splendenti, del suo corpo snello che lui sollevava fra le braccia e stringeva con passione.

Poi, a un tratto, i loro rapporti etano mutati. Valentina aveva cominciato ad assillarlo di domande, a fargli scenate di gelosia. Era diventata aggressiva con le altre donne, tanto che alcune coppie di amici si erano allontanate.Diceva sempre più spesso di essere sicura che lui aveva smesso di amarla. Si chiudeva in un silenzio ostile, oppure lo assaliva con accuse assurde. Gli telefonava di continuo in ufficio e più volte s’era accorto che lo pedinava e lo spiava nei luoghi in cui si recava per lavoro.

Durante i litigi, sempre più frequenti, Luigi s’era lasciato sfuggire frasi che non avrebbe mai voluto nemmeno pensare. Cosi gli eventi erano precipitati e il momento più doloroso era stato quello in cui aveva dovuto spiegare ad Anna che se ne andava via di casa.

Luigi amava molto sua figlia e arrivare alla decisione di lasciarla gli era costato uno sforzo enorme. Il timore di averla resa infelice non lo abbandonava un solo istante e gli impediva di pensare al suo stesso futuro. Si sentiva sperso e impoverito, non riusciva a riprendere in mano il timone della sua vita.

Era passato, da tutta l’allegria dei primi anni di matrimonio, all’esistenza cupa che andava trascinando fra casa e ufficio. Si calmava solo quando pensava al sabato, il giorno in cui rivedeva sua figlia. Anna lo attendeva affacciata alla finestra della sua stanza e gli scendeva incontro con le braccia spalancate. Passavano insieme i’intera giornata, ma anche il piacere di quelle ore gli veniva guastato dalla sensazione, che non l’abbandonava mai, di una perdita irrimediabile.

Spesso s’accorgeva che Anna lo fissava con aria corrucciata, con occhi seri e sperduti. Luigi avrebbe voluto tenerla stretta fra le braccia, avrebbe voluto dirle le parole più tenere, chiederle perdono.Invece si limitava a carezzarle il viso e i capelli, a raccomandarle di studiare e di nutrirsi.

Un sabato Anna gli chiese di andare al mare. Disse:

–E bello camminare sulla spiaggia deserta. Il mare d’inverno immobile.

Un’ora dopo padre e figlia passeggiavano silenziosi lungo il litorale di Ostia. Ad Anna tornò in mente quando, durante le vacanze estive, lei giocava con altri bambini al gioco del pescatore e il padre la guardava divertito. Un bambino faceva il pescatore e tutti gli altri bambini prendevano ciascuno il nome di un pesce. Il bambino pescatore cantava:

È arrivato il pescatore
che ha teso la sua rete,
o pesci dove siete?
Il pescatore è qua.

I bambini-pesci rispondevano

Noi siamo in fondo al mare,
veniteci a pescare,
la rete è tutta buchi;
nessun ci prenderà.

E il bambino-pescatore:

La rete l’ho aggiustata,
In fondo l’ho calata,
sì, sì, vi prenderò.

A questo punto il bambino-pescatore gridava il nome del pesce e il bambino, che rispondeva a quel nome, usciva dal cerchio e veniva inseguito dal pescatore. La cantilena andava avanti fino a che tutti i pesci erano stati pescati.

–Era proprio un bel gioco –pensava Anna camminando a fianco al padre. Andando per la battigia raccolsero conchiglie, rami, ai quali le onde avevano dato forme stranissime, e qualche stella marina.

Anna aveva una domanda che le bruciava dentro e finalmente la fece:

–Hai qualcuno che abita con te?

Luigi la guardò sorpreso:

–Vuoi dire un’altra donna? –domandò a sua volta e, dopo un attimo di esitazione, sottovoce, come costringendosi a una confessione, disse:

–Sto uscendo con una collega. È una giovane ricercatrice. Stiamo bene insieme.

Anna, riuscendo a frenare l’irritazione, assunse un’aria comprensiva:

–Ma abita con te? –insistette.

Luigi disse con tono meno esitante:

–Non sono ancora disposto a legarmi; Mi piace la sua compagnia. La trovo attraente, se è questo che vuoi sapere.

Anna si rendeva conto che avrebbe fatto bene a tacere, ma le parole le sfuggivano di bocca:

–Io spero sempre che, fra te e mamma, le cose possano riaggiustarsi.

Ora la voce di Luigi s’inasprì:

–Lo sai che abbiamo provato e riprovato. Evidentemente non c’era più niente da salvare. Mi dispiace, ma le cose stanno così.

Anna non si dava per vinta:

–La mamma esce con un uomo. È il suo capo e martedì scorso l’ha invitato da noi a cena.

Luigi pareva indifferente ed Anna continuò:

–Ha una casa in campagna. Ci ha invitate e forse andremo una delle prossime domeniche.

Luigi continuava a tacere, ma Anna non desisteva dai suoi tentativi di provocazione:

–Hai trovato II biglietto che ti ho lasciato sul tavolo in cucina?

–Mi hai ricordato che devo chiudere le finestre per via dei ladri. Me lo ripete sempre anche Marisa.

–Dunque si chiama Marisa?

–Viene ogni tanto a mettere un po’ di ordine. Lo sai che in casa sono un disastro... Le ho parlato molto di te e le piacerebbe conoscerti.

Anna si sforzò di rispondere calma:

–Non mi sento pronta. Sono certa che lo capisci. Aspetta ancora un poco.

Durante il ritorno padre e figlia si parlarono a monosillabi, ciascuno sprofondato nei suoi pensieri. Solo quando Anna scese davanti al portone di casa Luigi ritrovò il suo tono allegro:

–Il prossimo sabato ce ne andremo a vedere un film che ti piacerà moltissimo. Non ti dico il titolo, sari una sorpresa.

–Va bene –rispose Anna e raggiunse il portone senza voltarsi.

In casa nonna Clotilde l’accolse festosa e annunciò:

–Corri in cucina. Ho preparato le donzelline. Mi sono riuscite bene, sono leggere e croccanti.